Dova’lè è intrappolato nella tragedia della vita dei suoi genitori. Vuole respirare e cerca una posizione che gli permetta di trovare le parole per parlarne. Stare a testa in giù gli permette di vedere il mondo in un altro modo e di accorgersi di come il mondo vede lui. Questo chiede al suo pubblico; mettere le persone in relaziona le une con le altre. Il suo pubblico se ne accorge e reagisce, alcuni se ne vanno, altri raddrizzano la schiena. Capita di rimpiangere di non avere vissuto una vita autentica, capita anche a un’intera società – Israele – che vive una situazione distorta e disperata.
“Sapete cosa significa oggi mantenere un’anima, una coscienza? (p. 34 – 36). Passione civile e responsabilità personale sono i temi del romanzo raccontato a più voci. Avrebbe potuto essere un processo e invece è uno spettacolo teatrale appassionato, ricco di emozioni, pensieri e sentimenti, nel quale sopravvive “la cosa che un uomo trasmette inconsapevolmente, l’unicità e insostituibilità di ciascuna persona umana”. Luoghi, sapori, colori e odori si mescolano ai paesaggi e alle convinzioni, i dubbi si introducono tra i modi di dire, di fare e di pensare che riportano ciascun lettore a quel poco di esperienza che ha della vita e degli spazi di Israele. Un romanzo avvincente che fa patire chi legge, prova d’amore nei confronti della vita di chi conosce la perdita che procura la morte a chi sopravvive.
Dova’le è un comico, sbruffone
mediocre, non ha troppo successo, è malato e alla fine della sua vita recita
quello che forse sarà il suo ultimo spettacolo. Il romanzo si apre con un gioco
di scherzi e barzellette tra il comico e il pubblico. Nel benvenuto agli
spettatori, rientrano fin dall'inizio tutti i problemi attuali, dall'antisemitismo antico a quello nuovo - “Il modo migliore di farsi
apprezzare è sparire” (p 25) - ; dalle tensioni con gli arabi, fino alle
diatribe del governo. Dova’le coinvolge il suo pubblico,
peggio che di Kippur, interloquendo
ora con l’uno ora con l’altro, in una
vicenda che solo all'apparenza è strettamente personale. Gli spettatori sono gente di poche parole, con mille storie
complicate alle spalle; nessuno vuole sentir parlare di politica, sono andati
lì per ridere e per divertirsi e Dova’le, il buffone ciarlatano, li terrà tutti
con il fiato sospeso, mentre interpreta la storia, sulla quale vuole essere
giudicato e che li costringerà a reagire
e a scegliere di andarsene o di restare.
Mentre Dova’le fa scena accade
ciò che lui non aveva previsto: la
presenza tra il pubblico di una donna minuscola, seduta sola a un tavolo nel
seminterrato dove avviene lo spettacolo. Era stata sua vicina di casa molti anni prima, e capitata
lì per caso, darà una svolta alla storia. “Quand'ero piccola ero tua vicina di casa, nel quartiere dietro alla stazione degli
autobus, e tu sei il bambino che per affrontare il mondo, camminava sulle mani
ed eri un ragazzo perbene, (p.49). Poche parole e Dova’le si sente spaccare
dentro, entra in un’altra dimensione e cambia all'improvviso la sua storia. E mentre la sostanza
del vivere e del morire si dimensiona nel racconto di un viaggio nel
deserto del Negev, tra la base di Beer Ora e Gerusalemme - frammezzato dalle
barzellette dell’autista, con il sudore che cola per i quaranta gradi, - la
sala si svuota, e la storia difficile della sua adolescenza si riversa sugli
spettatori rimasti ad ascoltare …. Da
bambino, per affrontare il mondo, camminavo sulle mani, tenendomi ben ritto in
equilibrio sulla schiena. Guardavo il mondo da sotto insù e passeggiavo nel
quartiere, nei cortili, su e giù per le scale …(p. 75). Bisognerà attraversare il gergo che si usa
nei cabaret per far ridere e per far divertire - a volte provocatorio e irritante, altre volte
buffo, altre ancora disperato - per
arrivare a raggiungere la tenerezza che tiene insieme la memoria del passato
e la speranza del futuro che Dova’le ricostruisce nella
condivisione con i diversi personaggi del pubblico. . “E improvvisamente mi ero
ricordato di ciò che era successo a lui
e anche a me, a Beer Ora, …di quando erano venuti a prenderlo, ed era
partito sulla camionetta militare per tornare a Gerusalemme dove lo aspettavano
per il funerale.
Alla mente
di Dova’le si affacciano gli episodi più cari della sua vita, le fotografie con
i genitori, gli odori, le parole di richiamo e i contrasti, i tratti di sua
madre e di suo padre, i giochi e le serate … e lui non sa ancora chi dei due
sia morto, non ha mai partecipato ad un funerale e non sa cosa sia la settimana
del lutto. Come tenere
in piedi uno spettacolo? Dova’le ce la mette tutta. Imitazioni, salti
improvvisi della voce, interpretazioni grottesche, suoni e movimenti … I suoi
dialoghi con l’autista terranno svegli entrambi e gli spettatori mentre lui
improvvisa battute, scherzi e barzellette, muovendo tutto il suo corpo per dare corpo alle
immagini che vuole suscitare.
Una tra le
mille storie sofferte da chi fuggendo, riesce ad allontanarsi da un dolore per
poi precipitare in un altro. (p.158). E sarà Dova’le a restituire all'interlocutore la vita e a restituire ai lettori la vita che è rimasta dopo
la Shoah. Perché ci permette di tornare indietro e agire diversamente da
allora…(p. 168). ).”Devo capire – pensa
il giudice - come mai quel giorno, quando avevo visto Dova’le seguire il
sergente maggiore verso la camionetta con uno zaino in spalla, non mi ero
alzato e ero corso da lui. Avrei dovuto farlo. Avrei dovuto accompagnarlo e
chiedergli cosa stava succedendo. Ero o non ero suo amico? (p. 166) … La
coscienza emerge nel gesto di camminarsi a fianco volentieri, “allungo la mano,
gli toccò la spalla” per ricucire insieme una
vicenda sgangherata che anticipa nuove realtà per il bene di entrambi e della storia. “Senti, che ne dici se ti accompagno a
casa?” – “Un attimo, non così in fretta. Siediti, fammi da pubblico ancora per
un istante”. (p.175)
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